giovedì 28 luglio 2022

Le mani in faccia

 


Il sipario crollò.
Tutti videro il backstage.
Il protagonista era in mutande. E per quanto quella fosse un’immagine quotidiana e scontata nelle case di ognuno, tutti i giorni in ogni cazzo di vita, lì provocò un rumoroso turbamento nel pubblico.
La normalità incuteva sconcerto.
Strozzò forte le mani intorno alla gola. Mancò a tutti il respiro.
Non volevano guardare. Non volevano guardarSi.
Non volevano accettare quella tiepida emozione in instabile equilibrio.
NON VOLEVANO.
Non volevano togliere quella patina di sporco da quell’etichetta arrugginita per cui avevano impiegato ogni azione quotidiana, ogni sgradevole routine, ogni energia.

E non c’era campo.
Non c’era Stories di uscita, non c’era condivisione che potesse trasformare quel momento in puro spettacolo.

C’era la realtà.
C’erano le mutande di quell’attore protagonista. Le mutande di tutti, quelle che andrebbero tolte per meglio avvertire il benessere o il malessere del caso. Ogni caso a sé.
(Ma il caso non esiste!)
Furono costretti a farsi domande. I punti interrogativi aleggiavano tra le poltrone di velluto, sulle teste come aureole. Qualcuno si coprì il viso con le mani.


A tanti la pandemia non aveva insegnato un cazzo.

wolf ___wounded



Ci accarezziamo le ferite del passato, non importa chi sia stato a colpire.

Ci scrutiamo con dichiarata consapevolezza. 

Con la speranza di essere meno istintivi ma più intuitivi.


Ci accarezziamo nel silenzio della Grande Luna.


Ci auguriamo che il nostro sentire possa bastare. 

Un silenzio enorme

Le scarpe erano lucidate. Erano pronte, poi in una piena di giravolte e passi di grande equilibrio, sguardi incantevoli e sorrisi, una potente folata di un vento del Nord ha freezzato la scena. 

Rimasero così: immobili. 

Tranne i suoi occhi. 

Erano gli unici che già sapevano.

Erano andati OLTRE. 

Oltre il freddo, oltre il silenzio, oltre la paura, oltre l’ascolto uditivo. Sentivano.

Era sempre stato così.

Un destino scritto.

Un’attesa di stelle sotto un cielo che sembrava di plastica. 

Una palpabile attesa. 

Un frame già ripetuto.


Riprese anche la musica, come ogni volta.


"Damme n’abbraccio, primma ca è tard, primm ca scinn, primm ca nun sì cchiù a stess, primm ca o mument nunn è cchiù chist, primm ca o mument nunn è cchiù o mument giust"

 



martedì 12 luglio 2022

Paura

 All’improvviso la paura andò via, offesa.

Aveva soggiornato in un resort a 5 stelle, che in realtà non esisteva. Le avevano fatto firmare un contratto senza valore.

Aveva gestito la struttura in maniera esemplare, ma quando capì che non ci avrebbe guadagnato nulla, preparò TUTTI i suoi bagagli.


Le avevano mentito. 


Era tesa, era tesissima.

Era incazzata nera.

Aveva investito tanto in quel progetto, così tanto che le sue energie si autorigeneravano, non le era mai successo prima. 

Una macchina da guerra, inarrestabile.

Un’orgogliosa paura dal petto tronfio. 

Una vera stronza.

Una potente sorgente di malessere.

Un’impetuosa soggiogatrice.


Nessuno prendeva Paura per il culo. Era lei ad averlo sempre fatto.


Ma quel 2022 fu un anno davvero incredibile.










Eravamo lì

Mi guardava come se fossi tu.

Mi confortava.

Prendevo nota delle sue parole.


Ma volevo ugualmente scappare. Quel mondo non mi apparteneva più.

Appena distoglievo lo sguardo da me e tornavo ad osservarlo dalla finestra, sentivo di non farne più parte.

Seguiva una direzione che non era più la mia.

Era pieno di malati di ogni tipo.

Era pieno di patologie di ogni tipo. Non riuscivamo a tenere l’elenco aggiornato.


Volevo solo andare al mare. Finché ero lì.


In realtà sarei scappata su Marte, se fosse stato possibile.

Mi aggrappai ancora una volta all’inchiostro, tentando di ingerirlo e farmi benedire da quella sostanza blu che macchiava la mia mano sinistra. La mia “scia del bene”. La mia liberazione. Il mio equilibrio.

Afferravo gli attimi, afferravo il presente, ma non dovevo fermarmi troppo se volevo davvero sopravvivere in quella realtà… e il timore dei semafori della libertà si avvicinava alle nostre porte, con i suoi passi sempre più rumorosi. L’uomo nero del 2o22.

Non sapevamo più di quale —emia si trattasse. Avevano cambiato anche il significato delle parole, le definizioni, i valori dei parametri, ma quella che più mi preoccupava era l’infodemia. 

Una corrente di “informazione” soffiata da venti economici e politici, che non avremmo mai potuto capire fino in fondo. 

Eravamo… no, non voglio dirlo. 

Eravamo lì. Eravamo lì.





mercoledì 6 luglio 2022

A casa

 


A fatica spostai il coperchio del tombino per chiuderlo e scesi giù a nascondermi.

Il cellulare non prendeva sottoterra.

Nessuno avrebbe saputo dove fossi e quei pensieri sarebbero stati liberi.

Ci era rimasto solo quello, ma non tutti l’avevano capito.

Ci avevano visto gioire di nuovo e dimenticare la paura. 

Ci avevano visto emozionarci e fare progetti.

Avevamo fatto un grande falò con il malessere degli ultimi due anni: veloci, lenti, intensi, a tratti soffocanti.

Rischiavamo di essere indomabili. 

Rischiavamo di essere nuovamente ragionevoli.


Quei due anni erano stati una sorta di terapia per me. 

Inizialmente raggomitolata su me stessa, sentendomi vittima e preda, ripresi pian piano ad allargare le spalle.

Imparai a tagliare i rami secchi. Rispolverai l’anima e ballai con il cuore in meravigliosi passi a due, anche da sola. 

Il presente diventò così fitto e così pieno di me, che me ne innamorai.

Vidi con un nuovo sguardo i veri strumenti del potere e mi fu chiaro che potevo spegnerli con un clic, almeno in buona parte.

Non mi avrebbero piegato di nuovo nel terrore.

C’era un’energia del bene condivisa con molti. No, non con tutti. 

Ci eravamo ritrovati.


Mi si accesero gli occhi come fossero fari e iniziai a camminare, bagnandomi le suole ad ogni passo. Ero al sicuro. Solo questo contava. Non sentivo alcun odore di fogna. Ero libera.


Percorsi centinaia di metri, sicura che avrei incontrato altri come me.

Arrivò nel cervello “Play dead di Bjork ad urlarmi che fingere di essere morta potesse ammaliare il sentire quel dolore del mondo.

Seguirono poi i rimproveri della prof di filosofia di vent’anni prima “La devi smettere di fare la madre universale, non puoi! Devi pensare a te! Devi essere più egoista!”.


Stavo pensando a me, stavo pensando a me.


Ma quanto avrei voluto avere un megafono! Avrei voluto tenere “lezioni del bene” in radio e in tv, in diretta streaming ovunque. Avrei voluto puntare l’attenzione sul malessere civico delle frustrazioni non curate, dell’agonia di essere sottoposti ogni giorno a tutte quelle finte vite dei vincitori dell’apparenza, delle inutili lotte che ci hanno illuso di portare avanti con una tastiera e una buona grafica.


Avrei fatto meditazione ogni mattina con tutto il mondo, all’alba, in un tempo lento e riservato solo agli occhi interni e al respiro lentissimo per riprendere consapevolezza di noi come singoli, prima di essere parte di un tutto. Questo TUTTO ormai percepito SOLO attraverso device. Che fine di merda stavamo facendo…

Avevamo così tanto tra le mani ed eravamo distratti, perennemente distratti, spesso a sbirciare nelle vite degli altri per passatempo.


Purtroppo quest’attitudine all’utopia non si era placata nonostante la —demia.


E le ultime bandiere arcobaleno sventolate per la pace mentre continuavamo a fingere con chi avevamo a pochi passi, mi avevano fatto capire ALTRO. Ancora.

Ecco perché preferii andare sotto terra.

Avevo visto troppo.

Avevo sentito troppo.

Mi ero preoccupata troppo.


Ma avevo una foga di vivere che andava oltre ogni topo incontrato in quel buio. Mi sentivo al sicuro.


Sentii in lontananza, ma sempre più vicina Svanire di Einaudi e mi ritrovai a casa.